La dote di Speciosa signora di Pisa e la sua litigiosa famiglia (1236)

Le famiglie – nulla di nuovo sotto il sole – anche nel duecento litigavano. Non è difficile scoprirne il motivo principale in un’epoca ‘concreta’: il denaro e i beni.
Ad esempio a Pisa nel 1236 fu portata davanti ai giudici – Aldigerio del fu Gerardo, Sigerio del fu Conetto e Ildebrando del fu Amico – la contesa promossa da Bandino contro suo padre Ildebrandino detto Maschione, figlio di Albertino.
L’oggetto erano 35 lire, un corredo da 45 librate e 100 soldi di spese riguardanti Speciosa figlia di Ugo, moglie deceduta di Ildebrandino e madre di Bandino. Il figlio chiedeva la restituzione del valore della dote, nonché il rimborso di quanto sostenuto dopo la morte di lei.
Era di certo un caso speciale se meritava l’attenzione pubblica ... e per meglio affrontarlo i giudici posero delle domande ai litiganti convenuti nella casa del Comune, segnando nella pergamena (in latino) i diversi “inquit” e “respondit”.
Interrogato per primo, Ildebrandino rispose che aveva pensato di tenere in usufrutto i beni della moglie per tutto il tempo della vita sua. Usanza allora comune e praticata nelle vedovanze. Il corredo di lei però era stato in parte alienato e ciò che restava valeva 10 lire. Infatti “Bandinus abstulit ei sive habuit duas coctas valentes soldos 30 et duo braccialia valentia soldos VIII” – Bandino aveva preso e aveva due tuniche del valore di 30 soldi e due bracciali (anche con significato di cinture) del valore di 8 soldi. Altri interessanti oggetti sempre del corredo citati dai giudici furono una “arcapredulam (predella o cassa di legno) et sendadum” (tenda di stoffa fine?), un soppedano (cassapanca di legno da tenere ai piedi del letto), una tovaglia, una coltrice, un piumaccio, un mantello femminile foderato di sendado (in questo caso di seta), una pelliccia, due lenzuoli e un copertoio.
Dopo le domande e relative risposte su tali cose, Bandino mostrò un pubblico strumento rogato da un certo ser Bartolomeo nel quale appariva come dopo le nozze Ildebrandino avesse donato alla moglie “causa nuptias et in nomine antefacti” 40 lire. Era questo, più che un regalo matrimoniale concreto, un credito con una garanzia – in questo caso era stata la casa di famiglia presso la chiesa di San Frediano.
A Bandino fu chiesto anche se del corredo della madre avesse avuto “unum bussulum cum gaudeolis” (una scatola con gemme o cose preziose) – rispose no –, e se aveva speso veramente per il funerale 100 soldi – disse che in realtà erano stati 20.
Quindi i giudici esaminarono un atto del notaio Bonalbergo con il quale Bandino giurava sui Vangeli di non offendere il padre fino a quando fosse vissuto e un altro atto ancora, rogato da Dainese, che narrava un fatto grave.
Era accaduto che Bandino “illa nocte tempore proxime preterite rupit sibi et trafixit eis apothecam et rubbavit et furtive evacuavit ipsam apothecam suam de pannis et mercis et de s. XVIII” di grossi pisani “cum uno scagiale suis frescio [sic] argenti et partim salarum Saladini et fasciis quinque inter beccimas [sic] et caprinas et agnellinas et fascio uno cum tribus corectibus et aliis pannis et fascio uno pannorum perosinorum e aliorum pannorum et aliarum rerum” – Una certa notte da poco trascorsa aveva fatto irruzione nel magazzino, lo aveva saccheggiato e di nascosto svuotato di panni, merci e di 18 soldi di grossi pisani con una cintura d'argento e una parte del “salarum” di Saladino’ (sic, del denaro legato alla Terrasanta?) e cinque fasci di vello di caprone, di capra e di agnello e un fascio con tre “corectibus” e altri panni e un fascio di panni perugini e altri panni e cose.
Dopo la narrazione Dainese aveva aggiunto l’inizio del capitolo di un breve del podestà di Pisa sul fatto che non si sarebbe tollerato e permesso che un padre fosse privato della proprietà o dell’usufrutto dei beni da parte del figlio o dei figli ...
Non ci fu bisogno di altro. I giudici, alla luce di queste informazioni, respinsero le richieste di Bandino, condannandolo a risarcire 20 soldi di spese.
La sentenza fu letta nella casa del comune con i testimoni Ranieri da Vico giudice, Bonaccorso Pagese, Gerardo del fu Guidotto e altri; fu rogata dal notaio Saraceno del fu Torscio.

Passarono circa una trentina d’anni. Nel 1268 Bandino si sposò (per la seconda volta?) con Guida figlia del fu Boccaccio di Mincio. La donna, sempre secondo l’uso, dopo aver portato in famiglia la dote, ricevette la donazione di 60 lire “a causa di nozze e in nome di antefatto”.
L’uomo aveva già due figli maschi che sono ricordati in altri anni come notai – Giovanni (documentato nel 1280) e Michele – e due femmine, Ildebrandesca e Bella (doc. 1284).
La sua famiglia in questo periodo portava il ‘cognome’ Maschione.
Riassumendone altre vicende (v. anche i miei articoli), successivamente Giovanni di Bandino sposò Tedda e morì nel 1284, forse a Piombino durante la guerra di Pisa contro Genova. Il fratello Michele si unì a Leoparda detta Luparella di Leonardo del Pattiere ed ebbe per figli Giovanni e Oliviero. Morì in prigione a Genova, dove era stato condotto sempre nel 1284 dopo la sconfitta della Meloria.
Di Giovanni di Michele invece si sa poco negli anni a venire, mentre Oliviero diventò uno stimato notaio cittadino e fu frate Gaudente dell’Ordine della Vergine Gloriosa. Si sposò con Sismonda dei da Montemagno ed ebbe due figlie: Caterina, suora domenicana nel monastero di San Silvestro e Piera che sposò Matteo del Mosca.
Morì al tempo della Grande Peste (1348) e con lui finì la centenaria discendenza di Ildebrandino Maschione.

Paola Ircani Menichini, 13 aprile 2023.
Tutti i diritti riservati.




L'articolo
in «pdf»